Libri letti, riletti e sottolineati nel 2020.

 In Travel & Books - Luoghi e pagine da sfogliare

Questo è stato un anno intenso nel quale si sono mescolate le emozioni più diverse. Il senso di impotenza, l’incredulità, il timore dei primi mesi hanno lasciato spazio alla voglia di rinascita e alla speranza del periodo estivo per poi ripresentarsi – ampiamente previsti – in autunno. A placare l’alternarsi dei miei stati d’animo ci sono stati sempre loro.

Quelli che nessun virus può negare. Quelli che possono restare aperti senza permesso. Quelli che fanno compagnia, rassicurano, distraggono ed educano. I libri decidiamo noi se chiuderli e quando. Non esiste decreto che possa metterli in discussione.  

A gennaio mi ero ripromessa di leggere ancora di più dell’anno precedente e — date anche le circostanze ben presto sopraggiunte —  ora posso dire di aver superato di molto il numero previsto. Non è una gara certo ma un impegno con me stessa.

Tra i diversi libri letti ce ne sono alcuni che mi hanno particolarmente colpito (uno fra tutti Stoner), altri abbandonati a metà perché il tempo a nostra disposizione non è infinito e il numero delle buone letture sì, altri ancora che pur non lasciando tracce importanti  nella mia memoria ho deciso comunque di recensire per ragioni diverse. Perché un filo li legava ad altro o perché alcuni aspetti hanno toccato qualche mio nervo scoperto (è il caso de Il Treno dei bambini di Viola Ardone).

Questa sotto dunque non è una Top Ten List quanto più che altro una Ten Books Reviewed List!

Libri di cui ho parlato nel 2020 e altri di cui vi parlo oggi. 

Ai quattro libri quindi di cui vi ho già parlato qui aggiungo i seguenti sei in ordine sparso.

1) Stoner | John Edward Williams | Einaudi

Stoner è arrivato nella mia vita nel momento opportuno. Anticipato da voci che lo vedono vittima si è svelato ai miei occhi in vesti diverse. Forse per un tenue effetto somiglianza, chissà. Forse per quello che voglio sia, chissà. Sembra tutto lì Stoner, impresso nella prima pagina. Studente, poi insegnante universitario, una moglie isterica, una figlia passiva, due amici e un grande amore interrotto. Una vita ordinaria, anonima, quasi fastidiosa nell’apparente arrendevolezza. Eppure uno dei libri più letti negli ultimi anni. Eppure una storia su cui ci si scontra: un inetto, macché un insensibile, macché un contadino mai riscattato dalla sua condizione, macché uno sfortunato da compatire. È questo Stoner? Macché. Forse qualcosa del genere o forse niente di tutto ciò. Un solo punto è fermo, certo, indiscutibile nella vita di Stoner: l’amore, la passione, l’attrazione quasi patologica per i libri e la letteratura. Come verso un amante a cui è impossibile rinunciare a costo di perdere il resto. E il resto cos’è? Nulla a confronto. Così Stoner accetta qualsiasi azione meschina contro di lui da parte della moglie, di alcuni colleghi, della vita stessa. Come se non volesse essere distratto, come se non fosse importante, come se non volesse rischiare di perdere le uniche cose essenziali: insegnare e studiare. Una volta per tutte si impunta e lo fa contro chi – guarda caso – non merita di proseguire gli studi. E una volta per tutte si abbandona e lo fa – guarda caso – con una allieva con cui ama, legge, discute di letteratura, ma quando è chiamato a scegliere la risposta è quasi scontata. E lei lo sa. Non giudica e parte. Stoner non si giudica. Si ama o si odia. Si segue nei suoi pensieri. Con cura, attenzione, empatia e forse solo così si accetta nei suoi eccessi. Perché di eccessi si parla. In ogni azione, anche nei lunghi silenzi, nelle scelte sofferte di rinuncia, di assenza. Questo forse non si perdona a Stoner. Di non incarnare l’idea dell’uomo risoluto secondo un proprio immaginario. Di sapere che comunque lo si veda pare a lui non interessi. Perché Stoner ha altro a cui pensare. Ha altro, Stoner.

 

2) Eleanor Oliphant sta benissimo | Gail Honeyman | Garzanti

Eleanor ha costruito la sua vita perfetta e infatti sta benissimo. Si può fare, pare dire nella prima parte del libro. Possiamo davvero renderci invisibili e continuare a rispettare gli impegni professionali anche se abbiamo una vistosa cicatrice sul viso. Con un’ottima pianificazione delle giornate, una rigida selezione dei rapporti e la giusta distanza da una madre aggressiva è facile la difesa. Provate, suggerisce Eleanor Oliphant, giovane contabile scozzese. Provate a vivere una vita solitaria in un mondo che corre se vi va. Un’esistenza fatta di abitudini, abiti semplici, panini consumati con la sola compagnia delle parole crociate. Provate e vedrete che risultati. Poi, se proprio quel tarlo continua a scavare, non esitate ad aggiungere due bottiglie di vodka da scolarvi nel weekend così da stordirvi il giusto per arrivare al lunedì. È semplice la ricetta: non badare agli altri, scegliere poche parole taglienti in linea con il proprio pensiero e sorridere fino a quando la cattedrale regge. Una cattedrale dove Eleanor spera di inserire presto quel nuovo amore comparso per caso di cui ancora nulla sa. È una questione di tempo – dice – ma mentre il portone rimane chiuso dalle piccole finestre entrano persone gentili. Inaspettate. Senza bussare. Entra soprattutto un collega tanto strano da trattarla con garbo, da chiederle di passare del tempo insieme. Così la cattedrale comincia a vacillare. Le fondamenta non sono poi così solide. Forse è ora di smantellare l’impalcatura, spezzare i vincoli, tornare a quel passato rimosso. Mostrare la cicatrice del cuore. Scegliere con chi condividere la sofferenza e lasciarci scoprire una solitudine con radici profonde che vanno accarezzate da amici e lavorate da terapeuti. Che esiste lì fuori qualcuno che può andare oltre l’apparenza, scegliere di accompagnarci nel nostro viaggio o in parte di esso, condividere il peso dell’accetta con cui distruggere la cattedrale e tenerci la mano mentre posizioniamo i mattoncini della nuova piccola ma solida casa.

 

3) Il treno dei bambini | Viola Ardone | Einaudi

La storia era stata documentata ma mai narrata dice l’autrice in una intervista. E si sa la narrativa sfonda muri solidi e arriva a cuori che altrimenti mai avrebbero saputo. Porta ad empatizzare, crea emozione. Qui sta il grande merito di Viola Ardone: aver raccontato abilmente una storia su cui altri avevano lavorato intensamente. Aver ripreso testimonianze, interi brani, mescolato espressioni e commenti reali estrapolati dai testi, mantenuto stessi nomi e soprannomi, per farne il racconto di uno fra tanti. Amerigo. E qui sta la grande mancanza per chi su questa storia un po’ ci è stata, figurarsi per chi ci ha passato le notti: l’iniziale totale assenza della bibliografia da cui fedelmente e copiosamente si è attinto. Peccato davvero. Perché lascia un po’ l’amaro in bocca. Perché avrebbe reso ancora più significativo il risultato. Che è un bel risultato. Una scrittura fluida che rende facile e piacevole seguire i pensieri e i passi del protagonista di una delle imprese più straordinarie del dopoguerra. Quella dei tanti treni organizzati dall’UDI (Unione Donne Italiane) e dal Partito Comunista su idea della dirigente Teresa Noce che partirono prima da Milano e poi dalle città più colpite dalla guerra per spostare migliaia di bambini verso il Centro Italia e salvarli così dalla fame e dal freddo. Centinaia e centinaia di famiglie, una rete di compagni, una moltitudine di anime che si resero disponibili per accogliere quei figli sfortunati di una nazione in ginocchio e farli diventare per sei mesi, un anno o in molti casi per sempre parte del proprio destino. Un’organizzazione colossale, una macchina perfetta ideata, gestita e curata soprattutto da donne che ebbe il merito di agire su oltre 70000 creature. Cifre impressionanti in un tempo dove le strade erano distrutte, le linee telefoniche obsolete e le distanze infinite. Leggere questo libro significa ricordare con un po’ di retorica che siamo capaci di grandi cose. È un buon momento per farlo. Ricordare intendo. Grazie a coloro che molto prima di Ardone lo hanno reso possibile.

Ps Si consiglia a tal proposito la lettura de I treni della felicità di Giovanni Rinaldi e il documentario Pasta Nera di Alessandro Piva.

Sul blog di Giovanni Rinaldi è possibile farsi un’idea della questione in parte ancora irrisolta legata alle fonti nascoste.

 

4) Ti prendo e ti porto via | Niccolò Ammaniti | Mondadori

Un maledetto attimo.
Il maledetto attimo che non torna più.
Il maledetto attimo capace di cambiarti la vita.

A volte forse bisogna cercarlo quell’attimo maledetto. Essere pronti a pagare nella speranza di giungere a respirare. Serve per tagliare in due la vita e non essere più quelli di prima. Oppure essere quelli che si è sempre stati lasciando alle spalle un mondo sordo e ignorante. Questo sembra dirci il timido Pietro. Perla in una laguna di sassi. È un attimo che incrocia destini in questo tragico e a tratti comico romanzo di Ammaniti. A volte eccessivamente surreale. Due insolite coppie provano a formarsi in un paese che potrebbe essere di una provincia qualsiasi in una sterile Italia anni ottanta. Quattro vite nella cornice di grotteschi personaggi inutili, inetti o peggio violenti. Destini segnati, tentativi di prendersi la vita caduti nel vuoto, rotte che non si riescono a cambiare, desideri di rinnovamento infranti perché se questa è la tua storia inutile affannarsi. Poi in un attimo tutto cambia. Un attimo che può essere l’ultimo per qualcuno, insignificante o drammatico per altri. Indispensabile per chi lo provoca. I temi della provincia e della periferia ci sono tutti. Bullismo, emarginazione, violenza, ignoranza, prostituzione, qualche droga, alcol. E poi ci sono quelli, pochi, capaci di dolcezza, sentimenti, paure, dubbi che si scontrano contro una realtà arida e presuntuosa convinta di aver capito tutto e invece non ha capito niente.

 

5) Stabat Mater | Tiziano Scarpa| Einaudi

Ho acquistato questo libro – Premio Strega 2009 – richiamata dall’interesse che da tempo suscitano in me gli orfanotrofi del tempo in cui i neonati infagottati venivano infilati in ruote costruite appositamente o lasciati su scalinate di chiese scelte nella certezza di affidarli a mani sicure. Spesso – prima di donare loro l’ultimo sguardo d’amore – chi li aveva messi al mondo appuntava sul piccolo petto medagliette spezzate o lembi di stoffa di cui conservava l’altra metà sperando un giorno di riconoscersi e ricongiungersi. Così accade a Cecilia, orfana cresciuta nell’ Ospitale della Pietà di Venezia, di cui rimangono nei registri di accoglienza pochi appunti e uno strano disegno su un foglio strappato.
È lei la protagonista di questo breve romanzo di Tiziano Scarpa in cui l’autore sceglie l’artificio della forma epistolare per trasmettere senza filtri al lettore i pensieri, le paure e i dubbi dell’unico personaggio di cui conosciamo il punto di vista. Le lettere, infatti, sono scritte ad una madre immaginata e mai conosciuta. Una donna a volte odiata, altre compatita, destinataria inconsapevole di un tormento che cresce poderoso pagina dopo pagina alimentato dagli interrogativi di una mente adolescenziale marchiata dal dramma dell’abbandono. Parole struggenti, confuse, poetiche che si incasellano cercando impossibili risposte nelle notti silenziose dense dell’aria opprimente di una vita monacale resa appena più sopportabile dal talento di cui la giovane è dotata. Quello musicale che si manifesta attraverso le corde del suo violino.
Un’originale capacità di esprimersi sminuita dalle noiose composizioni studiate fino a quel momento che viene fatta emergere, valorizzata e trasformata dal bizzarro maestro appena arrivato: un “certo” Antonio Vivaldi.
Un inserimento quasi rivoluzionario quello del giovane sacerdote che giunge a stravolgere abitudini radicate, liberare emozioni represse, conoscere il mondo oltre le grate in modo quasi brutale e, attraverso le note, proporre spirituali vie di fughe da quelle esistenze desolate. Un nuovo modo di intendere la musica e per Cecilia, forse, di ripensare alla vita.

 

6) I leoni di Sicilia | Stefania Auci | Nord Edizioni

La Sicilia mi chiamava da tempo e Palermo era fra le destinazioni di viaggio che quest’anno di regole rigide mi ha in parte vietato. Indomita e di carattere propenso a cercare soluzioni sono ugualmente sbarcata all’Arenella senza il timore di multe e bisogno di mascherina. E dopo, assaporando lentamente e con gusto le parole di Stefania Auci, ho camminato fra i vicoli della città vecchia, le tonnare, i pescatori per giungere ai vigneti di Marsala e far ritorno al capoluogo. Ho annusato l’odore delle spezie, brindato con i calici di cristallo, visto trasformare una città tanto bella quanto dannatamene contraddittoria. Poveri e nobili, profumi e tanfi, istinti e strategie. Molto affiora nella storia sapientemente raccontata della famiglia più discussa e conosciuta dell’isola. Quella dell’impero costruito partendo dall’aromateria di due fratelli calabresi. Quella di tre generazioni che si intrecciano con i fatti salienti dell’Ottocento. Quella dei caratteri diversi e forti. Paolo istintivo, Ignazio assertivo, Vincenzo aggressivo, instancabile, perseverante, l’altro Ignazio leale ed equilibrato. Un anello tramesso come una staffetta dai valori nobili e poteri magici e un obiettivo unico: fare grande il nome dei Florio. Uomini dalla scorza dura dentro una cornice retta da mani ferme di donna. Giuseppina prima e Giulia dopo. Due figure opposte e centrali. Tenaci più di quanto appaia in superficie. Spalle salde su cui posare le fatiche del successo perseguito – e raggiunto – ad ogni costo. È un bel libro I leoni di Sicilia. Scorrevole e preciso con utili introduzioni a inizio capitolo così da accompagnare il lettore fornendogli informazioni storiche e spunti da approfondire. È un affresco che aiuta a comprendere rigidità e dinamiche mai realmente sepolte di una parte importante della nazione. È un gran lavoro di ricerca che solo in parte mi ha rapita ma sento comunque di consigliare.

 

 

 

 

 

 

 

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