La condizione femminile e l’influenza woolfiana nella scrittura di Anna Banti

 In Women - Grazie a loro. Come loro.
[L’articolo è una sintesi di un saggio del 2011 che scrissi in occasione di un evento pubblico].

Parlando di lotta per l’emancipazione femminile è impensabile non fare anche solo un veloce accenno a Virginia Woolf, una delle prime scrittrici in Europa che attraverso la sua opera e la sua esistenza assolutamente fuori dalle righe per l’epoca contribuì in maniera importante a rivalutare il ruolo della donna nella società. Il saggio A Room of One’s Own [1] pubblicato nel 1929 che riprende e completa quanto detto dall’autrice in due conferenze presso le università femminili di Newnham e Girton fu da subito considerato un manifesto da generazioni di femministe. Anche inquadrare la figura di Anna Banti è difficile senza considerare l’influenza che certamente ebbe su di lei la scrittrice inglese. Sono innumerevoli i punti di contatto fra le due iniziando dalla passione della prima per la seconda di cui tradusse Jacob’s Room [2] e ne scrisse la prefazione. Insolito per l’epoca ad entrambe fu concesso dai rispettivi padri di sviluppare quel talento che esprimevano già in tenera età e mantennero sempre quella veste aristocratica ─ che costò loro l’accusa di snobismo ─ circondandosi unicamente di nomi che ritenevano “intellettualmente” degni. La Banti in questo era addirittura più rigida tanto da rifiutare “qualsiasi discorso banale”. A tal proposito Grazia Livi in Narrare è un destino [3] intitola il capitolo a lei dedicato L’ultima regina e ricorda come la soggezione per colei che portava “la corona della letteratura sul capo” la faceva da padrona le volte che ebbe il privilegio di essere ricevuta in casa sua.

Quando penso agli incontri con lei – ormai ero già laureata, sì era la fine degli anni Cinquanta  – penso subito a due parole che indicano una misura e uno spazio: basso e alto. E vedo una serie di azioni per le quali mi avvicino, guardo in su, salgo, sento un silenzio, alzo la testa, entro. Sono in una camera-studio. No, sono in una torre, una torre d’avorio. La grande scrittrice, in quegli anni, non è immaginabile altrove. Attorno […] non possono che esserci fitti libri in scansie ordinate, quadri, tendaggi, mobili di pregio, tappeti persiani. La sua qualità principale è la distanza dalla donna comune. Ma vi sono anche altre distanze: dalla vita domestica di cui non sa assolutamente nulla e che ha delegato agli altri, dalla maternità mai pensata come fine né come completamento, dalle chiacchiere dei salotti mondani, dall’uomo a cui è legata e di cui non porta il nome […] Sentivo l’autorevolezza di lei e mi comportavo esattamente come nelle aule dell’Università, o come davanti a mio padre che, essendo professore, aveva su di me un potere. La stessa tendenza ad annuire, a sorridere ad ogni battuta. Lo stesso turbamento a sentire come lei […] bollava certi collaboratori illustri. […] Se amavo una scrittrice tanto diversa da lei osavo appena dirlo. […] Il suo straordinario talento era fatto apposta per tenere le distanze. Non solo dalla donna comune ma dalla scrittrice comune. Inoltre Anna Banti non si svelava mai. Questo, a dire il vero, mi pesò. Tentai a più riprese di avvicinarla a me, nonostante le differenze […] No, lei offriva scritti, offriva eventualmente capolavori, ma non voleva né poteva contaminarsi con dei coinvolgimenti piccini. I quali avrebbero messo a rischio la dimensione nella quale viveva: distanza e raccoglimento.

Woolf al contrario ─ pur vivendo di rapporti selettivi destinati ad un arricchimento reciproco ─ amava anche essere comica, prendersi con leggerezza e osservare il quotidiano di persone semplici per trarne spunto.

Tuttavia, quello che salta all’occhio facendo un lavoro meramente biografico è che le due ebbero un rapporto ugualmente intenso con l’arte visiva. Vissero al fianco di illustri critici d’arte e pittori assorbendo con tali frequentazioni quella componente figurativa rinvenibile nel modo di narrare dell’una e dell’altra. Al Bloomsbury Group [4] appartenevano diversi pittori a cui Virginia Woolf fu legatissima: la sorella Vanessa con cui visse un rapporto quasi simbiotico, il marito di lei Clive Bell, Duncan Grant e Roger Fry. Quest’ultimo, geniale critico d’arte, organizzò nel 1910 alle Grafton Galleries di Londra la prima controversa mostra postimpressionista intitolata Manet and the post-impressionist  grazie alla quale Virginia comprese che gli stessi principi incarnati in quei quadri potevano essere applicati al suo modo di scrivere con effetto altrettanto sorprendente. «La letteratura era danneggiata da una pletora di vecchi abiti ― affermò anni dopo nella biografia dell’amico Fry riferendosi a quel periodo ― Cezanne e Picasso avevano indicato la strada: gli scrittori dovevano gettare al vento la rappresentazione e seguirli» [5]. Manifestando un ritardo dovuto a diversi fattori i riferimenti della Banti furono altri, primo fra tutti Caravaggio, ma anche in lei «la Storia dell’Arte, direttamente o per tramite ― scrive Enza Biagini ― non ha mai cessato di costituire una direzione-guida […] non solo mediante singole opere di carattere specialistico, dal Lorenzo Lotto al Claude Monet [6], bensì in forma più dispersa, ma più intensa di calco formante, di ogni opera, sia essa di narrativa o di saggistica o di traduzione» [7].

Volevo essere io, autonoma. Le donne di Anna Banti.

Fu allieva di Roberto Longhi, grande e acuto critico d’arte che sposò nel 1924, evento biografico che segnò profondamente la sua carriera in quanto fu proprio il matrimonio a spingerla nella direzione della scrittura sebbene avesse dedicato i primi anni da laureata in storia dell’arte ― e con Adolfo Venturi! [8] ― proprio alle arti figurative lavorando a saggi eccellenti, alcuni dei quali elogiati da personaggi del calibro di Benedetto Croce.

Consideravo la critica la cosa più nobile che uno potesse esercitare. […] ― spiegò ― L’abbandonai quando capii che avrei fatto della critica d’arte di secondo piano. Avevo sposato Longhi e non potevo permettermelo. Volevo essere io, autonoma.

Una rinuncia sofferta, per non vivere in eterno da seconda nell’ombra del marito, che si rifletterà più tardi in molte protagoniste dei suoi romanzi, donne che “colle parole e colle opere”  esigono “il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito fra i due sessi” [9]. Un parità guadagnata con l’intelletto: la stessa a cui faceva riferimento Virginia Woolf.

Anche la scelta del nome è figlia di un desiderio di indipendenza intellettuale (il suo vero nome Lucia Lopresti non le piaceva).

Mi sarebbe piaciuto usare il cognome di mio marito. Ma lui l’aveva già reso grande e non mi sembrava giusto fregiarmene.

Alla fama certa preferì uno pseudonimo, un’identità altra, quella “che mascherandosi crea, e solo creando si sottrae a due prigioni: quella dell’origine e quella del matrimonio. Una identità fiera della propria liberazione. Fiera delle donne che ha vendicato tramite le pene sue, divenute arte: identificazione dopo identificazione” [10].

La Banti decise dunque, incoraggiata dal marito, di intraprendere la strada della scrittura, disprezzando al contempo quello che in Italia si andava facendo in ambito letterario, “il cardarellismo, la prosa d’arte, tutta quella letteratura ornamentale, D’Annunzio, il dannunzianesimo” e inventando attraverso l’amato Manzoni un proprio genere: l’invenzione storica fondata sulla memoria, dove la condizione femminile e nello specifico l’esclusione delle donne dalla storia divennero la costante delle sue opere. Questo le permise altresì di saziare quel desiderio nato nelle aule universitarie ovvero ridar vita e voce a personaggi meritevoli inghiottiti dall’oblio del tempo. Non abbandonò mai, infatti, “quel gusto di ritessere la vita di uomini immersi nella storia e soffocati dalla storia”. Il risentimento che affiora però in molte sue pagine è ben lontano dai consigli di Woolf che proprio attraverso A Room of One’s Own esortava le scrittrici a liberarsi dall’odio verso gli uomini e anni di soprusi per non perderne in qualità narrativa. Insegnamento che la Banti credeva ingenuamente di aver fatto suo se ritenne doveroso redarguire Grazia Livi durante una delle sue “incursioni in un campo così alto, così selettivo” ottenendo dalla giovane “allieva” una reazione di stizza. “Sei troppo femminista! Non ti far prendere la mano. Proprio lei mi diceva questo! Mi ribellai internamente pensando al suo femminismo, alle donne dei suoi romanzi che avevano ingoiato offese e sofferenze, costruendosi una regalità risentita. Ma non manifestai il mio dissenso e tacqui».

Da una prosa di memoria passò al puro genere narrativo continuando a privilegiare l’analisi sociale della condizione femminile. Già nei titoli è esplicita l’attenzione verso il tormentato mondo del suo sessoItinerario di PaolinaArtemisiaLavinia fuggitaLe donne muoionoIl coraggio delle donneLe monache cantano. E i nomi delle protagoniste femminili pregni di significato parlano chiaro: Paolina, Felicina, Arabella, Marguerite Louise.

Urgente in lei era il bisogno di riscattare “vite di donne di cui non v’è traccia nella memoria degli uomini” [11], correndo il rischio, come accadde, di rientrare nel filone del femminismo. Etichetta, quella di femminista, che detestava e da cui prese le distanze anche per bocca dei suoi personaggi.

Eugenia in Allarme sul lago [12] dice in tutte le sue lettere “Non sono femminista, vedete” e ancora in Un grido lacerante [13], ultimo e autobiografico romanzo pubblicato nel 1981, la Banti spera di chiarire una volta per tutte la sua posizione contro ogni tentativo di classificazione forzata: ” […] avevano ragione quelli che l’avevano accusata di femminismo, la parola che lei detestava […]. No, lei non aveva reclamato altro che la parità della mente e la libertà del lavoro, ciò che tuttora da anziana contestatrice la tormentava. Aveva amato pochi uomini, anzi uno solo, ma pochissime donne, e quelle poche, riunite in una favola, sempre la stessa: il mito dell’eccezione contro la norma del conformismo”. Un’eccezione a cui aspirò lei stessa fino alla fine dei suoi giorni nel tentativo riuscito di salvaguardare il  trono da cui guardava agli altri, ma soprattutto alle altre. Poche donne a cui spettavano grandi compiti, anche in letteratura, poiché Banti come Woolf [14] era convinta che solo una donna potesse cambiare finalmente il romanzo moderno perché portatrice di una intensa sensibilità e in grado di fare della donna un oggetto di racconto diverso dagli scrittori-uomini. Obiettivo questo perseguibile in ogni arte. La scrittura nel suo caso, la pittura per Artemisia Gentileschi.

Il capolavoro: Artemisia.

Artemisia Gentileschi. Autoritratto come Allegoria della Pittura. 1638-39

Anna Banti in Artemisia — considerato il suo capolavoro — celebra «la rivendicazione di una donna del seicento di vivere come artista» dichiarando così la relatività di ogni epoca di fronte al desiderio di espressione del proprio talento. La scrittrice, inoltre, è abile nel restituire alla storia una grande figura di donna condizionata fortemente dal pregiudizio ─ Artemisia Gentileschi  pittrice caravaggesca della prima metà del ‘600 ─ che all’età di dieci anni fu violentata e “vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro”. Sarà proprio l’arte a liberare Artemisia dall’umiliazione, a riscattarla dal passato, a permetterle di ottenere la salvezza infierendo simbolicamente su un Oloferne che sta dipingendo. L’arte però sarà anche una condanna per la pittrice che morirà sola, abbandonata dal marito e dalla figlia, considerata come “una che si è lasciata alle spalle tutti gli affetti e persino il vanto delle femminili virtù, per seguir la pittura solamente”. Anche il lettore meno esperto leggendo Artemisia coglierà nessi con l’Orlando [15] di Virginia Woolf avvertendo se non un riferimento almeno un riconoscimento artistico. Il romanzo-satira woolfiano narra la vicenda di Orlando, prima uomo poi donna, che dal tempo della regina Elisabetta compiendo innumerevoli avventure giunge al diciannovesimo secolo. Cambiano i tempi, cambia addirittura il sesso ma in Orlando rimane immutata la sua passione per la scrittura.

” […] La verità è che Orlando era malato ormai da molti anni. Mai ragazzo aveva mendicato mele o confetti, come Orlando aveva mendicato carta e inchiostro […], si era nascosto dietro le tende, o negli oratori segreti, o nello spogliatoio dietro la camera da letto di sua madre […] con un calamaio in mano, una penna nell’altra e un rotolo di carta sulle ginocchia. […] quelle meditazioni, dato che non poteva farne parola, le fecero desiderare, come mai prima, penna e calamaio. «Ah! Se solo potessi scrivere! “, esclamò” [16].

Dunque il desiderio irrefrenabile di Orlando è scrivere come per Artemisia dipingere. Ma le affinità fra i due romanzi sono anche altre e più sottili. “Entrambe sono strutturate sul genere biografico e le singole protagoniste hanno un preciso riscontro in un modello storico reale. Anna Banti ha raccontato la storia della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, la Woolf invece si è ispirata all’aristocratica Vita Sackville-West, con la quale aveva condiviso un legame sentimentale e che, attraverso il mito di Orlando, voleva rendere androgina ed immortale. Nel testo questi due personaggi rivivono le loro esperienze, mostrandosi sempre in bilico tra la realtà storica, cioè il loro essere già state, e la finzione romanzesca, vale a dire l’evolversi delle loro vicende nel tempo della scrittura. Entrambe sono donne ed artiste, ma si sentono perennemente inappagate, […]. Nessuna delle due è a suo agio nel proprio ruolo di donna e non disdegna “di cambiare [temporaneamente] i propri abiti con quelli maschili e andarsene”. Orlando concretizza questa insoddisfazione nell’irrequietezza con cui attraversa luoghi, tempi e sessi diversi; Artemisia invece esprime il proprio disagio nell’incapacità di conciliare l’essere donna con il fatto di essere anche un’artista. La scrittura per l’una e la pittura per l’altra rappresentano l’unico punto fermo, il rifugio da una vita caratterizzata comunque dalla solitudine. Il successo, infatti, le consola, ma non riesce a cancellare l’angoscia per il fallimento della loro vita privata: entrambe sono state costrette ad un matrimonio di circostanza e tuttavia continuano a sognare un’unione sincera ed appassionata. Vivere l’esperienza dell’altro sesso, in parte appaga le loro insoddisfazioni, così Orlando improvvisamente si risveglia donna, sebbene continui ad oscillare tra le due identità; Artemisia, pur senza subire metamorfosi, vive una vita da uomo, sola ed indipendente» [17].

Un nome spesso associato ad Artemisa è quello di Lavinia, la protagonista di Lavinia fuggita [18]. Il periodo di ambientazione è più o meno lo stesso: siamo nella Venezia del 1700. Questa volta si tratta di un racconto, contenuto nella raccolta Le donne muoiono, che permise a Banti di aggiudicarsi il premio Viareggio 1952. Lavinia a cui “per sortilegio le difficoltà si scioglievano” tanto da risultarle ogni cosa congeniale è una delle trovatelle dell’Ospedale della Pietà dove le ragazze vengono cresciute fra lezioni di tombolo, ricamo, canto e strumento. È il maestro Antonio Vivaldi in persona che ha il compito di insegnare il violino e far eseguire e intonare le musiche che compone per loro, ma a Lavinia questo non basta. Ribelle, insofferente alle costrizioni e ben consapevole delle sue capacità, l’orfana custodisce un quaderno di musica ove raccoglie le partiture che compone di nascosto e sostituisce a quelle del maestro per il piacere di sentirle suonate e perché conscia che l’opera per vivere necessita della relazione, dello scambio fra autore e fruitore, artista e pubblico. Scoperta e severamente punita per l’intollerabile trasgressione all’ordine costituito avendo osato irrompere in uno spazio sacro non consentito al sesso femminile Lavinia sceglie la via della libertà fuggendo forse verso quelle terre d’oriente che aveva sempre vagheggiato, “devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna” [19]. Realizzando l’impossibilità di esistere privata dell’atto creativo sacrifica le certezze di una vita decisa per assaporare il senso di onnipotenza dato dalla padronanza del proprio destino. Il quaderno i cui fogli si spargono nel paesaggio e si trasformano in vele rimanda alla creatività femminile diventata libera e consapevole e, custodito dalle amiche, rimarrà a testimonianza che un altro modo di creare è possibile.

Artemisia, Lavinia e quasi tutte le donne bantiane in sintesi sono vittime del tempo in cui vivono e di quel conformismo storico avvertito come ostacolo invalicabile a quella realizzazione artistica che avrebbe permesso loro di ritagliarsi un posto nella storia. Donne “indignate e superbe” [20] che non concepiscono l’esistenza senza la composizione, così come la stessa Banti che descrivendo Lavinia ma parlando di se stessa dice “lei non si curava di soprusi, eppure aveva fama di superba” a confermare che era l’amore per tutte le forme artistiche a distrarla dal mondo esterno facendola apparire fredda e ostile.

Instancabile poligrafa è riduttivo ricordare Anna Banti esclusivamente come scrittrice.

Banti fu una figura straordinaria tout court. A partire dal 1950 svolse anche un importante ruolo culturale, fondando nel 1950, insieme a Roberto Longhi, la rivista Paragone, di cui curò la sezione letteraria per quasi un quarantennio come appassionato interprete dei classici e lettore di esordienti e di cui divenne direttore alla morte del marito nel 1970. Sulla rivista apparvero regolarmente i suoi interventi di critica letteraria e cinematografica mentre su quotidiani e settimanali pubblicava articoli di costume e lavorava a romanzi, racconti, contributi all’opera di grandi narratrici dimenticate e talenti incompresi (Lorenzo Lotto, Matilde Serao) quasi avesse saputo che le sarebbe toccata la stessa sorte.

È difficile discriminare se più nuoccia alla fama di un artista essere dimenticato che mal conosciuto ― scrisse nella biografia di Lorenzo Lotto ― e vien voglia di decidere che se un grande spirito potesse scegliere, preferirebbe il silenzio alle mezze parole.

Figura centrale della vita culturale fiorentina, città in cui visse dal 1938, la sua esistenza fu segnata da un lavoro ininterrotto e fecondo fino al suo ultimo romanzo autobiografico Un grido lacerante. Lasciando ogni sua proprietà alla Fondazione Longhi morì a Ronchi di Massa il 2 settembre 1985. Se ne andava una protagonista del secolo in corso eppure la sua morte passò quasi in sordina. Anna Banti non rispecchiava i gusti del pubblico medio forse perché la sua scrittura raffinata non è accessibile ai più, forse perché era schiva e si teneva distante dal mondo comune o forse perché per lunghi anni dirigendo la parte letteraria della rivista Paragone aveva governato il mondo culturale tagliandone fuori molti. Caparbiamente tuttavia, proprio attraverso la rivista ebbe il merito di valorizzare autori italiani come Pierpaolo Pasolini e Beppe Fenoglio dimostrando di essere molto attenta anche a certe tematiche. Quando Fenoglio vinse il premio Alpi Apuane a cui partecipò sotto sua pressione dichiarò: “Nessuno ha mai pensato a Fenoglio. Dobbiamo essere fieri di averlo fatto noi. Domani molta gente riconoscerà di aver avuto torto e che la ragione era dalla nostra parte”. Aveva ragione.

Tiziana Rubano


[1] V. Woolf, A Room of One’s Own, The Hogarth Press, Londra 1929 (trad. Ital. di S.Perosa, Una stanza tutta per sé, in Romanzi e altro, Mondadori, Milano 1982).

[2] V. Woolf, Jacob’s Room, The Hogarth Press, Londra 1922; Harcout Brace & Co., New York 1923; paperback, Grafton. Londra 1976 (trad.Ital. di A.Banti, La camera di Jacob, Mondadori, Milano 1990).

[3] G. Livi, Narrare è un destino, La Tartaruga Edizioni, Milano 2002.

[4] Per Bloomsbury Group si intende il circolo di intellettuali di cui Virginia Woolf  (in origine Stephen) e la sorella Vanessa furono il fulcro. Il nome prende origine dal quartiere di Londra ove erano soliti incontrarsi il giovedì sera, a casa delle due donne. I bloomsburies erano accomunati dal rifiuto verso le costrizioni e i tabù dell’era Vittoriana in campo religioso, artistico, sociale e sessuale.

[5] Roger Fry. A Biography, The Hogarth Press, Londra 1940; Harcout Brace & Co., New York 1941; paperback, Grafton, Londra 1978 ( trad. Ital. di N.Fusini in Virginia Woolf. Saggi, prose, racconti, ed. I Meridiani, Mondadori, Milano 1988).

[6] A. Banti, Lorenzo Lotto, Sansoni, Firenze 1953; Claude Monet, Garzanti, Milano 1956.

[7] E. Biagini, Anna Banti in Civiltà Letteraria del Novecento, Mursia Editore, Milano 1978.

[8] Adolfo Venturi (1856-1941) fu uno storico dell’arte. Fondatore dell’Istituto di Storia dell’arte (ora Dipartimento) dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, il primo in Italia. A lui si deve la Storia dell’arte nazionale come disciplina moderna e il riordino, tra fine Ottocento e inizi Novecento, delle istituzioni del patrimonio artistico italiano.

[9] A. Banti, Artemisia, Sansoni, Firenze 1953 (ripubblicato da Mondadori, Milano 1953, 1969 in Due Storie e nel 1974 negli Oscar).

[10] Grazia Livi, op.cit.

[11] Enza Biagini, op.cit.

[12] A. Banti, Allarme sul lago, Milano, Mondadori  1954 (premio Marzotto 1955).

[13] A. Banti, Un grido lacerante, Rizzoli, Milano 1981.

[14] La Woolf sosteneva che la donna «potesse dire una parola nuova nell’ambito del romanzo moderno». G. Gadda Conti, introduzione a La Crociera di V. Woolf, Rizzoli, Milano 1974.

[15] V. Woolf, Orlando, The Hogarth Press, Londra 1928; Harcourt Brace & Co., New York 1929; paperback, Grafton, Londra 1977 (trad. Ital. di A. Scalero, Orlando, Garzanti, Milano 1978).

[16] op.cit.

[17] M.G. Terranova, articolo Percorsi di scrittura. Fonte http://www.medmedia.org.

[18] A. Banti, Lavinia fuggita in Le donne muoiono, Milano, Mondadori 1951.

[19] op.cit.

[20] Artemisiaop.cit.

 

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