Mast’Alberto Belmonte musico-barbiere.

 In Memory Cards - Angoli, storie e vite

L’ abbiamo visto farsi spazio fra la folla la sera della riapertura della chiesa di San Biagio orgoglioso del compito che gli aveva affidato il parroco: il taglio del nastro. Lui e un giovane. La consegna alle nuove generazione di uno dei beni  più preziosi di Altavilla. Un gesto veloce che avrà ripetuto milioni di volte nella sua lunga vita.

Un attrezzo fra le mani, le forbici, simbolo della sua fatica e della sua arte

Già perché essere barbiere un tempo non significava solo sfilare baffi o sfoltire chiome. Così come essere calzolaio andava oltre il risuolare vecchie scarpe. E lui è stato l’uno e l’altro rappresentando splendidamente la figura del musico-barbiere-calzolaio già presente nel Seicento e nel Settecento — tanto da finire in libretti d’opera — e abituale nel secolo scorso dove la barberia era più di un luogo di ritrovo, più di un caffè. Era un posto dove gli uomini si intrattenevano discutendo di politica, affari locali, vino e belle donne mentre il “padrone di casa” ostentava il proprio talento manuale con sforbiciate e mandolinate, insaponature e sviolinate non disdegnando lezioni al ragazzo desideroso di imparare. Trasformando così le visite dei clienti in momenti per rigenerare corpo e spirito.

L’ora della serenate.

Mast’ Alberto, com’è conosciuto, imparò il mestiere in giovanissima età da Angelo Gallo − pioniere nel campo − e come molti barbieri i suoi primi strumenti furono a corda: violino, mandolino, chitarra e solo tempo dopo il sax. “Imparai a suonare il violino che avevo 15 anni” mi dice fiero “strumento difficilissimo che ha bisogno di molta pratica” e di maestro. Un signor maestro che ricorda con affetto: Don Ferdinando Napolitano, personaggio riservato e dai modi signorili che nei tardi pomeriggi assolati interrompeva la quiete di via Borgo, dove viveva, con il “suono delicato del pianoforte, le cui note cadevano nel silenzio come perle in uno stagno” scrive Padre Candido nelle sue “Novelle dell’Acquafetente”.

Da autodidatta, invece, prese confidenza con altri suoni consapevole di avere orecchio e mani capaci. Torna con la mente agli anni d’oro. “Suonavamo sempre, allora erano altri tempi, ci si voleva più bene, ci si rispettava” e ci si sposava. Ogni sabato un matrimonio diverso con orchestrina al seguito. Così partivano lui, Giuliano De Rosa (fisarmonica, piano), Mario Di Matteo (tromba) e chi si univa. Matrimoni in casa dove per ben otto giorni si faceva musica, si ballava, si mangiavano dolci e beveva rosolio. Con due soli complessi in paese lo strumento era da tener sempre pronto dietro la porta. Che genere? Musica melodica, ma anche tarantelle. E serenate. Per quelle era sempre ora, “quasi tutte le sere” puntualizza ancora divertito. “La riunione era alla mia bottega, verso la mezzanotte, ci radunavamo due o tre persone e portavamo la serenata, prima alla fidanzata mia, poi a quella dell’altro, e si suonava fino a notte”. Senza farsi pagare il favore accontentavano anche coloro che non riconoscevano un Do da un Si bemolle ma avevano il cuore in brodo di giuggiole. Per ricompensa bastava sapere che le ragazze, a cui era vietato aprire le finestre, venivano svegliate dalle parole dolci delle loro canzoni. Lo ascolto e intanto immagino l’accoglienza dei padri padroni. “Qualcuno reagiva eccome” ride “ma io non ho mai avuto problemi”.

Il momento idilliaco fu interrotto dall’arrivo della crisi dell’artigiano che costrinse Alberto come migliaia di altri italiani ad emigrare. Ad attenderlo c’era la Germania e un posto da meccanico. Obbligato a tornare per ricongiungersi all’amata moglie intollerante al rigido clima tedesco faticò non poco a riabituarsi al disordine locale dopo aver apprezzato la pulizia e il rigore tipico dei paesi nordici. Siamo intorno alla metà degli anni settanta ma quel disagio non gli era nuovo: l’aveva già provato al ritorno dalla prigionia.

L’ora delle sirene: la disfatta di Tobruk.

Partito soldato nel 1940 fu uno dei 25000 italiani catturati durante la disfatta di Tobruk il 21 gennaio del 1941. Le bombe lanciate all’alba dagli aerei inglesi risuonano ancora oggi nelle sue orecchie così come disgusta il suo palato il granturco scaldato che gli diedero per due anni, prima in Egitto e poi in Sudafrica. Il freddo delle notti nel deserto, i fulmini che mietevano vittime, sono memorie fresche per una mente vivace come la sua. Una mattina gli dissero che era ora di cambiare aria. Una traversata di venticinque giorni con il timore dei porti minati, poi Glasgow, Scozia, cibo e lavoro. Ogni farm, come ancora le chiama Alberto, prese a servizio due o tre prigionieri mentre a lui toccò il privilegio di  rimanere al campo per far barba e capelli agli ufficiali. Fortunato verrebbe da dire se non fosse che cominciò presto a stargli stretto il compito. Del resto i compagni faticavano sì di giorno ma si rilassavano di sera dandosi alle danze e non solo.

Caparbio insistette con i tenenti fino a quando non lo accontentarono. Ironia della sorte finì con un giovane napoletano a guardare le pecore di due poveri anziani soli che per compiacerlo gli comprarono anche un violino al costo di 20 sterline. Resistette poco più di una settimana poi sprezzante del pericolo e incurante delle raccomandazioni del compagno si diede alla fuga. Fermò una camionetta di inglesi e chiese di essere portato al campo 75 dove venne imprigionato appena rimise piede. Abbandono del lavoro, diserzione. Non si perse d’animo. Con ufficiali e medici inscenò una commedia degna delle sue origini campane. Arrivarono persino a dargli ragione, quasi a scusarsi. Del resto un barbiere non può certo fare lavori di fatica. Esonerato da ogni sforzo ricomparve alla vista dei superiori nelle vecchie vesti di Figaro.

Altavilla la rivide il 13 febbraio del 1946. Dopo sette mesi si sposò. Eufemia che a lui si era legata poco più che bambina l’aveva aspettato così come il suocero che non gli lasciò tregua. La sua volontà andava rispettata nel più breve tempo possibile. Un prestito dallo zio Antonio, una pecorella da sacrificare per il pranzo cresciuta dalla cara madre e i due innamorati si unirono in matrimonio. Alberto racconta e si commuove al ricordo del “suo amore eterno”.

Con l’interruzione di Dusseldorf dove l’alienazione della professione lo spinse a metter da parte la creatività per il resto la sua esistenza lavorativa fu un continuo alternarsi di chiodi, bullette, tacchi, martelli, tenaglie e rasoi, pennelli, schiume, colonie. Artigiani di un tempo capaci di togliersi il grembiule di cuoio e mettere il camice rimanendo maestri insuperabili del sapere che è poi più di ogni altra cosa la sostanza della loro parola. E Alberto dalla sua non ha solo quella.

Il resto è storia di questi giorni

Con il Cavalier Alberto Belmonte la sera della presentazione del suo libro “La mia storia vi racconto”.

Ad oltre novanta anni si incontra nel centro storico intento a sviolinare e sprigionare energia dal suo piccolo corpo asciutto. Si presta ad ogni richiesta di insegnamento o di un pezzo in compagnia. Dalla finestra della nobile dimora che rispecchia la dignità del suo aspetto curato si sentono ancora oggi fuoriuscire ricercate melodie. È la memoria di quelle case addossate una all’altra, è la storia del suo paese. Racconta delle aree bonificate sotto il periodo fascista e della visita di Hitler in Italia come se fosse accaduto ieri mentre si preoccupa dell’attuale momento storico riflettendo sulle conseguenze economiche dell’Imu. È vita. È lui stesso comunità. È parte di quel presepe che a tutti i costi ha voluto realizzare per la chiesa di San Biagio. È quel Mast’Alberto che cita Nadia Parlante nella sua Antologia di racconti cilentani perché non si può ambientare un racconto ad Altavilla senza “l’accompagnamento sonoro del suo violino o della tastiera”.

Articolo del maggio 2013 

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